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La vicenda dei due marò è diventata un fatto tragico/ridicolo

Marò, una farsa all'italiana

I due Marò, Massimiliano La Torre e Salvatore Girone
I due Marò, Massimiliano La Torre e Salvatore Girone

L’Italia esce a pezzi da una faccenda nata male e gestita ancor peggio. Nata male, non il 15 febbraio 2012, quando è scoppiato il caso della Enrica Lexie, ma l’11 Ottobre 2011, quando tra l’allora Ministro della Difesa, Ignazio La Russa ed il Presidente di Confitarma D’Amico è stata firmata la Convenzione relativa all’imbarco sui mercantili italiani in funzione antipirateria. Una convenzione che, seguita dalle norme e dalle leggi successive, ha subito mostrato caratteri dagli aspetti contradditori. In effetti, la Convenzione mostra una grande confusione di idee circa il ruolo, la funzione, e la catena di comando delle scorte armate (i NMP).
In sostanza, la non chiara definizione del ruolo dei NMP è all’origine dell’aggrovigliarsi della vicenda, ed ha offerto agli indiani la possibilità di arrestare i due militari italiani, facendo arrivare la Lexie a Kochi.
Ma chi ha autorizzato il dirottamento della “Enrica Lexie” in acque indiane, e poi nella rada di Kochi? Di sicuro, l’armatore, in conformità alla Convenzione tra la Difesa e Confitarma; ma è inimmaginabile che i vertici della Marina e del Ministero non ne fossero al corrente.
Ed è anche inimmaginabile che, se vi fosse stata un’azione decisa da parte della Marina Militare, ed a prescindere dalla Convenzione, la nave sarebbe stata dirottata; e tantomeno è immaginabile che l’armatore (lo stesso D’Amico che aveva firmato la Convenzione con la Difesa) abbia deciso di dirottare la Enrica Lexie a Kochi senza informarne i vertici della Marina Militare ed il Ministero della Difesa. E’iniziata così una vicenda poco edificante, da parte indiana per un verso, ed italiana per l’altro.
I primi hanno avviato una campagna finalizzata più a questioni politiche interne, ed a dare soddisfazione alla loro opinione pubblica, che a fare indagini serie, trasparenti, aperte ad ambo le parti. Molti sono i dubbi sulle autopsie frettolose, sulle prove balistiche, sullo svolgersi dei fatti prima dell’arrivo a Kochi della Enrica Lexie e del peschereccio. Ma, da parte nostra, l’errore di aver autorizzato il dirottamento, è stato seguito da una lunga serie di errori e superficialità, sino ad arrivare a quelli, clamorosi, degli ultimi giorni, nei quali, dopo aver mandato allo sbaraglio i due marò, si è riusciti a mandare allo sbaraglio anche l’ambasciatore italiano in India.
Confidando forse nello stellone che avrebbe alla fine aggiustato tutto, inizialmente, c’è stata la più completa sottovalutazione del caso, e non è stata intrapresa alcuna azione decisa.
Successivamente, al rientro in Italia dei due militari per le vacanze di Natale, si è presentato questo fatto come un successo da sbandierare alla nostra opinione pubblica come prova dell’impegno e delle capacità della nostra diplomazia. Lo si è poi condito con un po’ di retorica sul fatto che “L’Italia e gli italiani hanno una parola sola”. Non si è però considerato che le condizioni poste dagli indiani per il rientro natalizio in Italia (la cauzione) facessero a pugni con la sbandierata dichiarazione di non riconoscere la legittimità della giurisdizione indiana e della conseguente privazione della libertà dei due italiani.
Dopodichè, si è inventata la storia del ritorno per votare (ma, se era per questo, non potevano votare in Ambasciata?), non più garantito da cauzione (avevamo dato buona prova a Natale), ma da un affidavit avente per “deponent” l’ambasciatore italiano in India. Che, in termini ancora più espliciti del primo caso, impegnando in prima persona il nostro ambasciatore, non esplicitamente, ma di fatto, riconosceva la situazione venutasi a creare. Dopodichè il Ministro degli Esteri dichiarava unilateralmente ed ufficialmente che Girone e Latorre non sarebbero rientrati, buttando allo sbaraglio il nostro Ambasciatore, ed innescando una grave crisi diplomatica.
Il resto è cronaca: alle più che prevedibili reazioni dure e, a questo punto, non immotivate in termini strettamente formali, da parte indiana, si è risposto con l’indietro tutta e col balbettare che non si fosse trattato del rifiuto al ritorno, ma di una sua sospensione in attesa di chiarimenti da parte indiana, anche in merito alla falsa questione di una pena di morte che, ritengo, non sia affatto in discussione; e che, avendoli ottenuti come se si fosse trattato della vittoria italiana in una complessa trattativa diplomatica, i due potevano far ritorno in India. Hanno poi provveduto gli indiani a chiarire che nessun chiarimento c’era stato, se non la generica affermazione che, pur essendo in India prevista la pena di morte, questa non è quasi mai applicata, ed è prevedibile che non lo sia neanche in questo caso. Affermazione che non aggiunge nulla a quanto già previsto dalla legislazione indiana.
Ma non ci si poteva pensare prima?

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